09/05/08

 

Intervento del presidente delle ACLI Andrea Olivero





Inseriamo l'intervento conclusivo del presidente delle ACLI, Andrea Olivero, al 23 Congresso Nazionale. Lo ringraziamo per le parole su Inhassoro, che ci riempiono di orgoglio e ci spronano a fare sempre meglio.



Andrea Olivero*

presidente nazionale Acli



Conclusioni


Cari Amici, grazie per questo ricchissimo XIII Congresso nazionale in cui moltissimi delegati hanno potuto prendere la parola: 64 i delegati che hanno preso parola, oltre 40 gli ospiti.

Voglio ricordare poi tutte le persone che ci hanno inviato messaggi. Alcuni sono stati letti per altri non è stato possibile farlo, ma verranno tutti pubblicati, dal Vicario generale di Sua Santità per la diocesi di Roma, cardinal Camillo Ruini, al ministro dell'istruzione Giuseppe Fioroni che mi ha inviato una lettera ricca di spunti di riflessione.


Parto però da uno di questi messaggi: [il presidente legge il messaggio di mons. Santo Quadri].

Ho voluto partire con questo saluto perché viene da uno dei nostri padri, da uno di coloro che hanno fatto le Acli, in quel radicamento che noi ci siamo riproposti di aggiornare nelle modalità, ma di andare a considerare essenziale per le Acli del XXI secolo, con una passione e una concretezza che lo caratterizzavano e lo caratterizzano ancora.

Ricordo sempre che la sua concretezza era rammentata da molti con uno slogan che diceva: "Per i nostri circoli con mescita, meno litri più libri". Ecco quella concretezza del fare che a volte può far sorridere ma che poi incide nella realtà di un pastore che guarda al coinvolgimento profondo.


Qualche altro ringraziamento a chi ha terminato con questo congresso i compiti nell'Associazione: alla presidenza uscente che ha operato in questi anni; la direzione che mensilmente si è ritrovata per discutere la linea associativa; i collegi dei probiviri e di garanzia che hanno svolto, talvolta in condizioni non semplici, la fondamentale funzione a servizio dell'Associazione con l'equilibrio che è proprio di questi organi; e ancora i revisori dei conti.

E tutti gli altri che nella gratuità e con l'entusiasmo che risiede nello svolgere funzioni a servizio dell'Associazione si sono adoperati. Un ringraziamento va poi a tutti coloro che si sono adoperati per l'organizzazione del Congresso sia politica che tecnica, in particolare il segretario del Congresso Fabrizio Benvignati Allargo poi il ringraziamento a tutti gli operatori che in questi giorni e nelle settimane passate hanno volentieri lavorato alla preparazione di questo appuntamento.


La mia relazione iniziale che secondo alcuni analisti del genere era, in alcuni tratti complessa, forse anche ostica perché affrontando un tema come quello che ci siamo proposti della migrazione dal '900 naturalmente comportava un'elaborazione che fosse sufficientemente raffinata da giustificare le uscite che pure erano indicate in essa, spero anche con precisione.

Questa relazione è stata dibattuta, ripresa anche con alcune sottolineature. Ma credo anche, e questo mi ha fatto particolarmente piacere, condivisa in profondità da quanti hanno partecipato a questo Congresso e ha fatto scaturire un dibattito intorno a quelli che indicavo in essa come nodi cruciali; ma ha fatto anche emergere alcuni altri nodi che richiamerò e che mi sembrano importanti.


Vorrei utilizzare tre parole per indicare questo congresso: innanzitutto il termine "presenza".

Ce l'ha detto con forza Andrea Riccardi, ieri pomeriggio, e in altre forme è stato detto da tutti i politici che sono venuti qui in questi giorni e che hanno riflettuto sulla situazione politica, in alcuni casi anche cercando di rielaborare il lutto, per quanti uscivano da una sconfitta elettorale.

Ebbene, da tutti è venuto questo elemento: da un lato, il riconoscimento della nostra presenza e, dall'altro, la sfida della presenza nei territori, del vivere i luoghi nei quali le persone sono presenti con tutte le contraddizioni, ma anche con tutta la vitalità, la realtà vera che in questi luoghi si coglie.

Quando però ci poniamo il tema della presenza, naturalmente noi aclisti dobbiamo dire come stare, come radicarci nel territorio. Certamente dobbiamo profondamente riflettere sul nostro modello organizzativo. Abbiamo dato delle indicazioni in questo Congresso. Abbiamo colto la necessità di non cancellare la nostra tradizionale presenza nei circoli storici, ma di rinnovarla a partire dalla molteplicità degli interessi, delle attenzioni, delle passioni sociali e civili che animano i nostri concittadini, facendo rete tra tutti questi, cercando di costruire un sistema "a stella marina" – che ho richiamato in relazione – che ci consenta di sviluppare sempre più la socialità, ma al contempo di rimanere profondamente uniti, perché legati da poteri profondi che si autoriproducono e che riescono a dare significato dall'interno al nostro agire anche in ambiti diversi.

Ebbene, questo nostro radicamento sul territorio è la prima grande sfida che la nostra Associazione deve assumersi. In tutte le province, in tutte le regioni. Credo dovremmo interrogarci, da domani, su come le Acli possono essere più significative per le nostre comunità; come i nostri circoli, quelli più vivaci e quelli che manifestano una certa stanchezza, sia per l'età dei componenti che per le modalità dell'associazionismo, ribadisco, come tutti questi possano essere sollecitati, stimolati accompagnati in un percorso di rigenerazione che dia loro significato e che dia voglia agli iscritti di appassionarsi e di essere a loro volta promotori di associazione.

Non crediamo di poter noi dirigenti fare l'associazione. Noi dobbiamo dare stimoli, consigli, indicazioni e mettere a disposizione strutture e modalità per fare associazione; ma poi dobbiamo anche saper cogliere quello che dal basso emerge. Non necessariamente tutte le esperienze nascono già acliste, molte volte nascono da uno spontaneo desiderio di attivarsi; e le Acli devono saper cogliere in questo l'opportunità di fare rete e di andare a dare dimensione politica a queste esperienze.

Radicamento nel territorio. Se n'è parlato anche nel confronto con i tanti politici che abbiamo avuto, in particolare appartenenti all'attuale opposizione; anche perché stiamo vivendo giornate difficili e complesse per la formazione del nuovo governo e, quindi, i leader del Popolo della libertà hanno preferito dedicarsi a questo e forse anche non esporsi. Ma avremo sicuramente occasione, nel prossimo futuro, di interloquire con le forze di maggioranza con cui comunque abbiamo avuto degli incontri e rapporti in questi giorni passati. Ebbene, anche partendo dalla politica ci rendiamo conto che il radicamento nel territorio parte da uno studio appassionato del particolare per servire il globale: senza questa attenzione ai problemi concreti che ciascun territorio presenta noi difficilmente sapremo rappresentare quel territorio e difficilmente sapremo mettere in atto strategie, servizi, modalità opportune per poter davvero essere significativi all'interno di esso.

Allora, l'appello che rivolgo a voi e tramite voi ai consigli provinciali e regionali è quello, come ho detto in relazione, di essere, di trasformarsi in osservatori delle politiche sociali, del lavoro, dell'immigrazione dei territori che noi abitiamo. È questo l'unico modo che c'è per far sì che ci sia davvero un pensiero, un approfondimento, una riflessione: che si parta dalla realtà concreta di ciascun territorio, che può essere differente, ma che può anche essere letta poi insieme.

Mi rendo conto di chiedervi un lavoro faticoso, ma un lavoro necessario. Per rispondere con passione noi stessi, abbiamo bisogno di essere più forti anche nella consapevolezza di quelli che sono i nostri valori incarnati nelle strategie che dobbiamo mettere in atto per trasformare la realtà; ma dobbiamo anche andare a fornire un pensiero compiuto nel rapporto con le istituzioni e con le altre associazioni che, come avete potuto vedere in questi giorni, guardano a noi con straordinario interesse.

Come stare? Come stare in particolar modo nel mondo del lavoro. Tanti, tantissimi interventi hanno in particolare soffermato l'attenzione su questo tema che per noi è fondativo. Questo mondo del lavoro che si è trasformato, che noi intercettiamo con fatica, che andiamo a servire più con i servizi tradizionali che con la capacità di costruire relazioni, di socializzare il lavoro, come abbiamo detto nella relazione e nei documenti pre-congressuali. Ebbene, qui c'è la grande sfida di andare a riunire, a riorganizzare, a far emergere forme di partecipazione dei giovani lavoratori; in particolare, penso ai tanti lavoratori cosiddetti atipici, ma che atipici non sono più, del mondo flessibile che volge al precariato, cercando di far emergere le ragioni dello stare insieme.

Partiamo pure, come molte realtà territoriali ci hanno suggerito, dai servizi, perché quello può essere il modo di agganciare le persone, di renderci credibili agli occhi di chi, appunto, è anche un po' deluso dalle forme tradizionali di rappresentanza; ma poi trasformiamo tutto questo in un rapporto continuativo. Non fermiamoci a dare un servizio, per quanto utile, cerchiamo di coinvolgerli, di far loro comprendere che nelle Acli possono trovare uno spazio per avere la propria visibilità e la propria forma compiuta di partecipazione civile da lavoratori all'interno della società.

Non pensiamo che sia un'impresa impossibile. Ricordo proprio Palma Plini, dirigente aclista scomparsa da poco e ricordata all'inizio del Congresso, che raccontava di come nacquero le Acli Colf. Lei che era estranea a questo mondo, ma era lavoratrice e donna, venne incaricata di andare a contattare le colf; e iniziò andando a fare volantinaggio in Stazione centrale a Milano dove giungevano queste donne al mattino per poi andare a lavorare nelle case.

Ecco, non pensiamo che un tempo fosse facile fare aggregazione dei lavoratori. È sempre stato un mestiere complesso. Ma è questo il nostro mestiere. Quindi, proviamo a trovare delle strategie che passino anche attraverso gesti concreti che ci mettono tutti quanti in gioco, per riuscire a riattivare questi canali.

E ancora, sempre a cavallo tra il mondo del lavoro e le nuove sfide del mondo del lavoro, cerchiamo di creare socialità, incontro tra i lavoratori stranieri. Per noi l'immigrazione non può essere soltanto una tematica che affrontiamo culturalmente o una sfida a cui diamo risposta con i nostri servizi; ma anche qui è una sfida associativa, di associazione. Iniziano a emergere associazioni di cittadini emigrati. Bene, noi queste associazioni le conosciamo, la nostra storia è storia di associazioni di emigrati in tutto il mondo; sappiamo quali sono i loro bisogni, proviamo a rispondere a questi offrendo loro una rete, lo spazio di cui hanno bisogno, soprattutto in principio e nei diversi luoghi. Provando a iniziare con loro dei percorsi che partano dalle cose più semplici di cui possa esserci necessità – la conoscenza della lingua, la socializzazione, e poi ancora la possibilità di tutela dei propri diritti. Lo facciamo attraverso i servizi, ma facciamolo anche e sempre di più attraverso l'associazione.

E poi come "stare con" le famiglie. Abbiamo detto "Punto famiglia". Un'iniziativa concreta, semplice per certi versi, ma che rivoluziona il nostro modo di fare servizi: non più sportelli. Sarebbe troppo poco. Ragioniamo invece su qualcosa che dia protagonismo ai soggetti, fossero anche due, tre o quattro famiglie intorno alle quali si inizia a costruire, alle quali si dà una mano, lì sì anche per offrire qualche servizio che loro stessi non potrebbero mettere in campo.

Tutto questo può fare emergere un protagonismo di cui abbiamo un bisogno straordinario, e non solo noi aclisti, ma noi italiani, noi uomini oggi in questo mondo così strano che per certi versi sottovaluta la relazione, la cura delle relazioni.

E poi, ancora, vorrei dire come stare nel fare impresa a vocazione sociale. Grande sfida anche questa che va affrontata in questi anni, fino in fondo. A più riprese abbiamo ribadito l'unitarietà del sistema aclista, la volontà di non dividere l'associazione dai servizi, dalle imprese. Perché diversamente avremmo probabilmente perso la vocazione, si sarebbe rallentato anche il flusso di dirigenti, di passioni che per fortuna continua a circolare; ma abbiamo bisogno di essere capaci di fare impresa in modo diverso da come lo fa l'impresa "profit" o da come fa la maggioranza delle imprese. Dobbiamo stare in questo mondo dell'impresa con caratteristiche proprie.

In relazione ho indicato alcune piste. Ma credo sia una sfida urgente e impegnativa quella della carta dei valori e quella anche di un criterio nella gestione dei nostri servizi e delle nostre imprese che renda esplicita, intanto la trasparenza, poi la volontà di metterci al servizio delle comunità in cui siamo. Noi non ragioniamo nella logica del profitto, non ragioniamo solo nella logica della crescita come il mondo del mercato oggi. Ma in una logica che è quella di mettere al centro la persona, sapendo che i bilanci a posto, sono un criterio altamente etico, ma che contemporaneamente bisogna sapere a che cosa servono gli utili che le nostre imprese producono e bisogna esplicitare a tutti quali siano le finalità di questi utili.


E poi un secondo ambito del nostro agire, una seconda parola chiave che riprendo dalla relazione, ma che mi sembra sia prepotentemente emersa dal dibattito, in "parlare con il fare".

Questo oggi ci è chiesto e questa è la grande sfida dell'associazionismo del XXI secolo. Non l'attivismo senza testa e senza cuore che ha caratterizzato alcune pagine della storia dello stesso mondo cattolico, e di un certo modo di fare volontariato. Non è questo il nostro parlare con il fare. Ma è l'intrinseca politicità dell'agire che noi dobbiamo mettere in campo.

Vedete amici, fare le Acli vuol dire rimboccarsi le maniche, vuol dire fare iniziative concrete, piccole o grandi che però incidano sulla vita delle persone che sono insieme con noi. Questa è la strategia.

"Scommessa Italia" non è solo una campagna di comunicazione, perché se questo fosse alla fine non ci dovrebbe preoccupare più di tanto, non dovrebbe stare nei nostri pensieri in questa fase. Invece, indica il modo in cui noi andiamo a dire qual è la società che nel domani vogliamo.

Il nostro parlare con il fare diviene particolarmente importante in questa stagione, una stagione nella quale vi è un rifiuto da parte dei nostri concittadini della parola non accompagnata dall'azione.

Pensiamo a quanto è accaduto nella politica, a quanto programmi che avevano pure una loro capacità persuasiva in termine di rigore siano stati trascurati dai cittadini, che guardavano invece alle questioni concrete; promesse forse troppo roboanti, ma che comunque potevano far immaginare che immediatamente vi fossero degli atti successivi alle cose enunciate.

Ebbene noi dobbiamo agire in questa maniera, dobbiamo pensare al nostro fare le Acli come eminentemente un operare nel sociale cercando anche con inventiva e con fantasia di riattivare i nostri territori; anche rendere bello e gioioso il ritrovarsi delle persone intorno a noi e ai progetti che noi promuoviamo, sia perché vi è una grossa condivisione fra le persone, ma anche perché attraverso questa attivazione ci sentiamo protagonisti.

Non è un elemento da poco questo del protagonismo. In questa società dobbiamo tenere insieme l'elemento della rappresentanza. Ma non ci basta. Vogliamo riattivare i territori, rendere le persone che con noi vivono la realtà, protagoniste del percorso. Vogliamo far sì che si sentano davvero cittadini, davvero cristiani, veramente persone che possono cambiare la realtà che le circonda.

In questo processo dobbiamo stare attenti. Ce lo ricordava Guglielmo Epifani. Perché c'è il rischio che tutto si schiacci sul presente, che non ci sia più prospettiva in questo nostro agire. È un timore che sento fortissimo per la politica, che in qualche modo tende costantemente a verificarsi sul breve, brevissimo periodo delle elezioni. Non sono ancora finite le elezioni e già qualcuno parla di verifica l'anno prossimo del Partito democratico in occasione delle europee. Cose folli.

Ragioniamo invece in una prospettiva di medio-lungo periodo, che possa dare effettivamente una possibilità alle idee di camminare, alle strutture di partecipazione di diventare efficaci.

Nei tempi stretti la partecipazione non esiste. Nei tempi stretti l'unica partecipazione è quella di Grillo che riempie una piazza per urlare i "vaffa", ma non è questo il modello con cui noi vogliamo partecipazione popolare.

E dobbiamo contestualmente anche resistere alla diaspora, come diceva Walter Veltroni, resistere alla diaspora. Perché certamente abbiamo molti segnali che ci indicano questo come un paese che in qualche modo è in affanno: cittadini, carichi di preoccupazioni, che non conoscono le opportunità, anche perché talvolta non sono in grado di farlo. Indifesi come sono nella società del rischio, si chiudono e sfuggono gli uni agli altri. Ebbene, proprio con il nostro "parlare con il fare", noi dobbiamo provare a costruire reti di fiducia. Innanzitutto, fra le persone. E queste trasformarle in grandi reti di speranza nella prospettiva del futuro.

Inoltre, a questo riguardo, noi dobbiamo mettere al centro una [terza] parola che già conoscete perché l'ho ripetuta tante volte, e che credo debba stare nel cuore della nostra Associazione.

È la parola "cura". Noi dobbiamo avere cura delle relazioni in primo luogo. La nostra Associazione si deve contraddistinguere per lo stile con cui opera all'interno della società.

Se c'è un elemento che della politica ci sconcerta è proprio che non ha saputo avere cura di noi. Non ha saputo avere cura degli aspetti istituzionali: in questi anni la rozzezza della politica ha cancellato quello stile che distingueva l'agire istituzionale, che garantiva tutti e ci faceva sentire tutti un po' più a casa nelle istituzioni.

Pensiamo a quanto non si è avuto cura in politica e nemmeno rispetto nelle questioni di normale educazione riguardo alle persone: abbiamo assistito a indegne gazzarre, abbiamo visto persone per bene insultate e schiaffeggiate. Inaccettabile.

Cerchiamo di far sì che questo non si ripeta. Chiediamo forte che si torni ad avere cura delle relazioni tra di noi, che ci sia rispetto, da un lato, ma anche preoccupazione per il bene dell'altro.

La nostra Associazione da questo punto di vista credo abbia la capacità di mettere al centro questo stile dello stare insieme. Non dimentichiamo che 4 anni fa a Torino mettemmo al centro della nostra riflessione la fraternità. Non fu un caso. La fraternità l'assumemmo all'epoca come grande categoria politica, ahinoi, dimenticata dopo la Rivoluzione francese; o meglio già a metà della Rivoluzione francese cominciarono a depennarla dai documenti ufficiali e poi via via scomparve.

Ecco, noi vogliamo che questa fraternità, che fra l'altro per noi oggi assume una caratteristica ancora più ricca, guardandola con gli occhi dell'interdipendenza, ebbene, che questa divenga il nostro stile, il nostro modo di vivere all'interno del nostro paese e anche con i popoli vicini e lontani.

Penso alla cura che noi dobbiamo avere riguardo ai nostri progetti di cooperazione che non sono stati lungamente citati in questi giorni, ma che vanno ricordati. La scuola di Inhassoro in Mozambico, che finalmente funziona a pieno regime e che per noi è motivo di orgoglio; sta operando, sia pure se è all'inizio, il nostro progetto in Kenya per sostenere l'aggregazione dei lavoratori di un paese che cerca una via per la democratizzazione. E vorremmo anche attivare un ambiziosissimo progetto, come diceva questa mattina padre Faltas: la costituzione delle Acli in terra di Palestina. Un progetto che ha una valenza particolarissima, perché non c'è modo di abitare il presente più forte che farlo nella Città per eccellenza, a Gerusalemme; nella città delle tradizioni, ma anche quella a cui tutti noi tendiamo in maniera concreta o metaforica per il futuro.

Credo che anche questa cura di relazioni debba appassionarci.

Infine, tutto questo noi vogliamo andarlo a costruire insieme da cristiani. Ci ricordava ieri Andrea Riccardi, citando De Lubac, "la natura essenzialmente sociale del cristianesimo vissuto"; e ci diceva il cardinal Martino nell'omelia che "la fede è personale ma non privata". Credo davvero che questo elemento debba essere per noi un punto fermo. Dobbiamo vivere intensamente la nostra esperienza cristiana perché da questa scaturisce anche l'origine del nostro impegno nel sociale. È questa la finalità, ma anche la vera prospettiva all'interno della quale noi operiamo. Dobbiamo avere quel coraggio, a cui ci invitava con forza il cardinal Martino, di essere le api operaie della Dottrina sociale della Chiesa.

Allora, amici, in quei processi che noi vogliamo mettere in campo – formazione per la politica, formazione al nostro interno per i dirigenti, rinnovamento del nostro stile di stare insieme nei territori, sia essendo i nostri stessi consigli degli osservatori sulle tematiche emergenti, sia attraverso la riattivazione delle reti dei nostri circoli – in tutto questo, mettiamo al centro la Dottrina sociale della Chiesa.

Anche qui Andrea Riccardi ci rammentava e invitare ad usare la DSC come il vero strumento per respirare a pieni polmoni, per non perdere le idealità, oggi che sono cadute le grandi ideologie; non perdere valori che travalicano l'immediato e che però contestualmente servono oggi, nel concreto, l'uomo. Ebbene, io credo che noi con lo stile che ci è proprio e anche sapendo che il vivere per gli altri è radice di felicità, ebbene, con tutto questo stile noi dobbiamo operare, per ritrovarci fra 4 anni come Associazione più ricca, più bella, più capace di interpretare e di ridire alla nostra società quello che noi desideriamo per il bene di tutti.

Termino ringraziandovi e riprendendo le parole della lettura che abbiamo ascoltato ieri dagli Atti che, credo, meglio di ogni altra ci richiama al nostro preciso dovere: noi cristiani abbiamo sempre una speranza che travalica i fatti concreti, che ci fa – come ha ricordato Benedetto XVI nella Spe salvi – essere sereni o quanto meno carichi di fiducia anche quando il nostro personale o collettivo progetto sociale dovesse fallire. Ebbene, noi però non siamo chiamati alla sola contemplazione, per quanto questa sia un elemento determinante, come ho detto, per poter poi vivere fino in fondo la nostra esperienza nel sociale; ma siamo chiamati anche – e come aclisti, io dico, in particolare – a testimoniare nel mondo, nella Galilea delle genti, quello che è il nostro profondo sentire, quello che l'insegnamento che da Gesù ci è giunto. Ebbene, allora, amici, anche a noi tutti sentiamo rivolte quelle parole dall'alto: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?"


Roma, 4 maggio 2008

* testo non rivisto dall'autore


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